Prosegue la collaborazione tra l’etichetta leccese Dodicilune e il pianista, polistrumentista, compositore e arrangiatore Adriano Clemente, salentino d’origine e napoletano d’adozione. Dopo "The Mingus Suite" (2016), ritratto jazz in sette movimenti ispirati dalla musica di Charles Mingus, e le composizioni originali tra stili e tradizioni della musica cubana e latin di “Havana Blue” (2017) e "Cuban Fires" (2018), martedì 23 maggio - distribuito in Italia e all’estero da Ird e nei migliori store on line da Believe Digital - esce “The Coltrane suite and other impressions”. Il doppio cd propone ben venticinque composizioni originali scritte e arrangiate da Clemente, che suona piano, tromba, arpa, kundi, kalimba, balafon, flauto, shawm, sax soprano/alto, bowed cümbüs, affiancato nelle registrazioni dal suo The Akashmani Ensemble. La rodata formazione nata nel 2011, che comprende Marco Guidolotti (sax baritono/tenore, clarinetto, clarinetto basso), Daniele Tittarelli (sax alto), Antonello Sorrentino (tromba), Massimo Pirone (trombone, trombone basso), Ettore Carucci (piano) e Francesco Pierotti (contrabbasso), è impreziosita dalla presenza di due grandi musicisti statunitensi. Al sax tenore c’è infatti David Murray, artista che dagli anni ’70 in poi ha collaborato con Fred Hopkins, James Newton, Stanley Crouch, John Hicks, Hugh Ragin, Jack DeJohnette, Henry Threadgill, Olu Dara, Butch Morris, McCoy Tyner, Ed Blackwell, Steve McCall, solo per fare qualche nome, tra i fondatori del World Saxophone Quartet con Oliver Lake, Julius Hemphill e Hamiet Bluiett, è stato nominato nel 1980 "musicista del decennio" da The Village Voice e nel 1989 ha vinto un Grammy Award nella categoria "miglior interpretazione jazz strumentale di gruppo". Alla batteria si siede invece Hamid Drake, un grande strumentista che riesce a trasmettere in modo autentico le caratteristiche poliritmiche del drumming africano e vanta collaborazioni con Don Cherry, Borah Bergman, Peter Brotzmann, William Parker, Toshinori Kondo, Marylin Crispell, Pierre Dørge, Georg Gräwe, Herbie Hancock, Misha Mengelberg, Pharoah Sanders, Wayne Shorter, Malachi Thompson, David Murray, Archie Shepp, Bill Laswell, Nicole Mitchell, Michel Portal e, in Italia, al fianco di Pasquale Mirra, Antonello Salis, Paolo Angeli. Ospiti in alcuni brani anche Fabrizio Aiello (congas), Alessio Buccella (piano), Michelangelo Scandroglio (contrabbasso), Michele Lanzini (violoncello), Michele Makarovic (tromba).
The Coltrane suite and other impressions
"Chi conosce la mia Mingus Suite (Dodicilune 2016) troverà un parallelo in questo nuovo progetto dedicato a John Coltrane (1926-1967), uno dei giganti del jazz moderno, in quanto anche questa è un'opera musicale che vuole raccontare una storia come se fosse un film per le orecchie". Nelle note di copertina di A Love Supreme, Coltrane scrisse: "Durante l'anno 1957, per grazia di Dio, ho sperimentato un risveglio spirituale che mi avrebbe portato a una vita più ricca, piena e produttiva. A quel tempo, in segno di gratitudine, chiesi umilmente che mi venissero dati i mezzi e il privilegio di rendere felici gli altri attraverso la musica". In un'intervista ha anche dichiarato: "Voglio essere una forza per il bene reale. In altre parole, so che ci sono forze cattive, forze che portano sofferenza agli altri e miseria al mondo, ma io voglio essere la forza opposta. Voglio essere la forza che è veramente per il bene". La Coltrane Suite ritrae il risveglio spirituale di Coltrane nel 1957, un punto di svolta che cambiò la sua vita per i restanti dieci anni prima della sua prematura scomparsa e che ispirò il suo impegno a dedicare la sua musica alla promozione dei valori spirituali negli esseri umani. La suite è un viaggio immaginario nel flusso mentale dell'artista, a partire dalla Madre Africa come sfondo della sua eredità, per poi proseguire con le varie fasi della sua invocazione di libertà dalla sofferenza, il suo risveglio, la sua predicazione attraverso il corno, la sua ascesa verso una dimensione serena e la santità del suo essere musicale. Ho iniziato a scrivere queste composizioni intorno al 2013 per il mio Akashmani Ensemble, e all'inizio avevo solo un brano, intitolato Saint John, che poi è diventato Preach on my Horn. Poi ho avuto l'idea di assemblare altre composizioni e scrivere nuova musica per preparare una suite dedicata al risveglio spirituale di Coltrane. L'ultimo pezzo, All Praise, è stato scritto poche settimane prima della sessione di registrazione. Per quanto riguarda il personaggio principale di Coltrane, cercavo una voce che potesse portare con sé l'intera tradizione del sassofono jazz e che avesse un suono grande e vibrante. Nella primavera del 2021, nell'ultima fase del blocco, ho saputo che la grande leggenda del sax tenore David Murray era in viaggio in Italia con sua moglie Francesca, e quando l'ho contattato per proporgli la nostra collaborazione ha subito risposto positivamente. Il modo in cui ha interpretato la mia musica e i profondi livelli di espressione che ha raggiunto attraverso il suo corno sono a dir poco meravigliosi. Hamid Drake è un grande batterista che riesce a trasmettere in modo autentico le caratteristiche poliritmiche del drumming africano. Ho pensato a lui come al musicista giusto per questo progetto fin dall'inizio. David Murray e Hamid Drake sono due musicisti eccezionali che ammiro molto per il loro contributo alla registrazione. Sono grato a entrambi. Il resto dei musicisti sono tutti abili jazzisti italiani e, come nel caso della Mingus Suite, l'organizzazione del gruppo è stata in gran parte merito della guida di Marco Guidolotti. Il secondo CD, Other Impressions, contiene varie composizioni ispirate da altri eventi e circostanze. La maggior parte di esse risale a una decina di anni fa, tranne Havanera, Afghan Child e Frenzy Clouds, che sono state scritte pochi giorni prima della sessione di registrazione. Dopo la sessione di registrazione a Roma nel settembre 2021, ho iniziato a lavorare sull'editing del materiale insieme a Piero Lanza, e poi ho deciso di arricchire le trame musicali invitando nuovi musicisti e sovraincidendo altre parti alla registrazione originale. Ho suonato io stesso molti strumenti, tra cui la mia amata arpa venezuelana, allo stesso scopo. lo stesso scopo. Tre brani sono stati eseguiti a cappella con il sax alto".
Adriano Clemente
Note di copertina
Red Garland diceva che “dopo Charlie Parker è arrivato Trane”. E John, nella testa di chi lo ha amato, nel soffio di chi lo ha seguito, nelle mani di chi lo ha conosciuto e nel cuore di chi ne ha condiviso l’anima, non se n’è mai andato. Alla sua divinizzazione ci ha pensato lui stesso e la Storia di un jazz che soppesa creatività e intuizioni su due unità di misura: il prima e il dopo Coltrane. Il prima e il dopo di una musica che si è spinta così lontano, come uno Shuttle in orbita, da aver cancellato in sé stessa qualunque, possibile definizione. Coltrane era il suono e la musica: quella che non si era mai udita prima e ancora tutta da inventare. Quella della negritudine e della lotta. Quella di un mondo che nessuno riuscì mai ad immaginare, se non Coltrane: un mondo fatto da uomini in pace. Quindi, ci vuole coraggio per proporre al mercato discografico di oggi un doppio cd dove il primo è interamente ispirato dal percorso, artistico e umano, compiuto dal sassofonista di Hamlet (Carolina del Nord). Coltrane e la sua idea espressiva, il suo vigore interpretativo, la sua ricerca interiore abbinati al suo voler aspirare ad una musica capace di cambiare le regole del gioco umano: è questo il carisma filosofico di “The Coltrane Suite And Other Impressions”, assemblato da un artista ad ampio spettro come lo è Adriano Clemente che, dice di lui stesso, «a volte suono il piano come se fosse un santur iraniano e l’arpa venezuelana, che ho studiato durante i miei soggiorni invernali all’Isola Margarita, come se fosse una Kora africana». Detto questo, si capisce perché la multidisciplinarietà sia così importante per questo compositore di Lecce che, per scegliere le giuste colorature armoniche, le corrette traiettorie timbriche e le pulsazioni ritmiche più consone al suo sentire, non abbia posto alcun limite al suo esercizio quotidiano al piano, al sassofono contralto, a quello tenore, alla tromba, al trombone (suo oggetto di studio di questi ultimi tempi) e alla musica indiana. Tutto, però, prende quota quando Adriano Clemente entra nel vivo di un progetto che è un’espressione-impressione dell’arte della composizione. Lo racconta lui stesso: «In questo lavoro ho cercato di esprimere la musica così come la concepisco: tanti linguaggi diversi che si dirigono verso una sola sostanza. Quella del jazz, al quale mi dedico da vent’anni, anche se non mi considero un jazzista puro». E’ una questione che solleva infinite riflessioni su quel binario dove corrono paralleli il concetto di innovazione e tradizione. O, meglio, quel mistero che trasforma l’innovazione in tradizione e che ha fatto entrare l’avanguardia di Mingus, Duke Ellington e Coltrane nel repertorio classico: accadde anche con la dodecafonia di Arnold Schoenberg o con il minimalismo di Terry Riley. Ed eccoci alla prima congiunzione: la poliedricità linguistica di Clemente, la sua divorante passione per gli alfabeti etnici, la sua curiosità insaziabile nei confronti di tutto ciò che unisce le musiche alle musiche: «Non è facile parlare di innovazione nel jazz di oggi, perché la maggior parte dei musicisti apportano minime modifiche a ciò che è stato fatto dal be-bop al post-bop. Per quanto mi riguarda, sono molto più interessato allo scrivere musica e a quegli artisti che, ancora oggi, riescono a comunicare qualcosa di nuovo nella composizione. Penso a Roscoe Mitchell, William Parker e Henry Threadgill. D’altronde, non c’è grande differenza tra composizione e improvvisazione: se hai qualcosa di nuovo da dire, lo puoi fare in entrami i campi. Ellington proiettava tutto sé stesso nell’orchestra; Coltrane componeva mentre improvvisava. Io, che non mi considero un buon strumentista perché di strumenti ne suono tanti ma senza approfondirne nessuno, lavoro sulla scrittura e sull’arrangiamento: come Charles Ives, mi guadagno da vivere in altro modo». Ma questo non va a scapito di una qualità e di una visione musicale che Clemente porta dentro sé come se fosse una missione. Ed è questo praticare i tanti timbri, con connesse conoscenze tecnico-meccaniche degli strumenti, che permette a Clemente di esprimere con spontaneità e freschezza un’idea tutta sua, e particolarmente contagiosa, di quello che è il jazz: un delicato equilibrio di solismo e procedere collettivo. E’ così che prende forma “The Coltrane Suite”: una scrittura immaginifica che si concede ad una mutazione che tutto deve a quelle effervescenze, a quelle deflagrazioni e a quelle apoteosi liriche coltraniane nelle quali Clemente si è immerso dopo un lungo viaggio di conoscenza. Per inciso, qui non c’è alcuna armonia tipica utilizzata da John. Neppure quel giro di Si-Sol-Mi bemolle che in “Giant Steps” assume un significato numerologico e rappresenta all’interno del brano un “eterno ritorno”. Però, gli ascolti ripetuti e lo studio come pratica di elevazione a volte portano a coincidenze piacevolissime, come «il brano “Shine” basato sul II-V-I contenuto anche in una ballad di Coltrane, oppure il cambio di accordo in ogni battuta, che ricalca “Giant Steps”, in “Preach On My Horn”». Chiamiamole pure coincidenze, anche se le passioni musicali di Clemente, fin dagli inizi, si sono rivelate sufficientemente ampie da superare il concetto di casualità con la scoperta, in gioventù, di “In the Wake of Poseidon (1970) dei King Crimson con Keith Tippett al pianoforte: jazzista tanto vicino alla free improvisation quanto alla musica contemporanea. E poi, tutta quella musica “fuori asse” che va dal British Jazz ai Soft Machine al minimalismo di Terry Riley. In breve tempo, Clemente arriva al Miles Davis di “Bitches Brew” e al mistico Coltrane: «So che sto per dire un’eresia: a John mi sono avvicinato grazie a “A Love Supreme”, ma per la mia maturazione non lo considero un disco fondamentale. Lo sono stati, invece, “Stellar Regions” del 1967 e quasi tutte le registrazioni della fase che va dal 1965 in avanti: per esempio, il brano “Ogunde” tratto da “Expression”, sempre del 1967. In questo periodo Coltrane aveva raggiunto una dimensione così lirica, eppure così esplosiva con quel vibrato a-la-Ayler (Albert), da trasformare la musica in forza catartica. Il mio obiettivo è quello di riportare la sua musica nell’essenza umana: un elemento di riconciliazione con la nostra dimensione ed esistenza. Soprattutto in quest’epoca, nella quale il contributo spirituale di Coltrane potrebbe essere fondamentale per l’evoluzione consapevole e pacifica degli esseri umani.». Queste “impressioni” sullo spirito della musica di Coltrane funzionano proprio grazie a questo: «Le mie composizioni, che si lasciano ispirare dai vari stadi dell’evoluzione della musica di Coltrane, non nascono a tavolino. Quando sono particolarmente ispirato siedo al pianoforte, e se ottengo qualcosa di buono ci lavoro fino a perfezionare le mie idee. E’ accaduto proprio nella Coltrane Suite: la sessione originale con David Murray, il missaggio con il coinvolgimento di altri musicisti, la sovraincisione con altri dieci strumenti: è la prima volta che mi concedo ad un lavoro di produzione in studio così ampio». Seconda congiunzione: il sax tenore di David Murray. Cresciuto sotto l’influenza di Archie Shepp e Albert Ayler (presenti nella fase Free di Coltrane), ha suonato con McCoy Tyner, pianista chiamato da Coltrane nel 1960 a far parte del suo primo quartetto. E Murray, in “Coltrane Suite”, è l’avamposto di quella folgorazione che porta dritta all’ascesi febbrile del sassofonista di Hamlet: «Questa musica, senza il suo contributo, non avrebbe avuto alcun respiro. E’ lui che ha saputo esprimere quella forza e quella spiritualità tipiche di Coltrane. Inizialmente avevo pensato a Ravi, il figlio di John, ma poi la comunicazione si è interrotta - dice ancora Clemente. Alla fine, dopo aver notato che David era spesso presente in Italia, ho scritto a sua moglie e nel giro di pochi giorni ci siamo sentiti. A lui ho spiegato il progetto, ho fatto ascoltare qualche mio brano e lui ha accettato immediatamente di partecipare. Con Murray abbiamo lavorato otto ore al giorno, ha dato tutto sé stesso, si è messo in gioco con umiltà – a volte, forse, anche troppa – e con un assoluto spirito di collaborazione. Dare consigli a David? Non scherziamo. Solo una volta mi sono permesso di dirgli se avrebbe potuto suonare in modo diverso un brano. D’altronde, nel suo sax c’è tutta la grande tradizione del jazz e recupera quelle radici africane tipiche di Coltrane. Lo stesso è accaduto con Hamid Drake: un altro batterista non avrebbe potuto fare ciò che ha fatto lui». Ma l’intero Akashmani Ensemble, formazione aperta che permette a Clemente di agire con grande elasticità creativa, ha imposto a sé stesso uno slancio armonizzante che dalla musica di Coltrane estrae quella vicinanza al divino che, secondo Alexander Stephan - sassofonista e scienziato autore del volume “The Jazz of Physics” – si ottiene da quei principi geometrici contenuti tanto nella musica di Coltrane quanto nella Teoria della Relatività di Albert Einstein. Ancora Clemente: «Tutta la musica suonata e ascoltata in un certo modo conduce ad una connessione con l’interiore perché va al di là della nostra dimensione». Come vanno oltre, mettendo in contatto fra loro matematica e luoghi ignoti, le strutture armoniche e le scale usate da Coltrane. Luoghi nei quali la sofferenza si trasforma in espressione artistica e in una musicalità che in “The Coltrane Suite and Other Impressions” non conosce alcuna battuta d’arresto: «Coltrane era sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo ed era più che consapevole della dimensione spirituale e umana nelle quali si muoveva», conclude Adriano Clemente. Che con questo suo lavoro apre le porte ad un “sentire” che si spera possa essere universale.
Davide Ielmini
Adriano Clemente, nato a Lecce nel 1958, cresciuto a Napoli, inizia a suonare la chitarra e il pianoforte in tenera età. Dal 1978 al 1980 guida un quartetto (chitarra, liuto, flauti, voce), ispirato alla musica celtica e rinascimentale, mettendo in musica le poesie di William Blake. Nel 1982 trascorre molti mesi in India e Nepal per studiare il sarod, strumento a corde della tradizione Hindustani, e lo stile vocale khyal. Nel 1986 collabora con Costantino Albini alla colonna sonora del film tv "Cinque Piccoli Indiani" di Paolo Brunatto, suonando sarod, dulcimer martellato e percussioni. Nel 1991 torna in India per studiare lo stile vocale dhrupad. Nel 1996 Amiata Records pubblica "Akashmani: Across the Sky", musica minimalista nella tradizione di Terry Riley e Steve Reich eseguita su tastiere Yamaha e Roland. Alla fine degli anni Novanta forma il Vajra Trio con Costantino Albini (sitar, percussioni) e Bernhard Siegel (flauto, megaharp). Dal 2000 studia pianoforte jazz, arpa venezuelana, sax soprano e improvvisazione, ritmi latini e percussioni. Nel 2011 fonda l'Akashmani Jazz Ensemble con il quale si esibisce in vari concerti. Con l'etichetta Dodicilune ha già pubblicato "The Mingus Suite” (2016), “Havana Blue” (2017) e "Cuban Fires" (2018).
L’etichetta pugliese Dodicilune è attiva dal 1996 e dispone di un catalogo di quasi 350 produzioni discografiche (cd, vinili, dvd) di artisti italiani e stranieri. Grazie a Ird e Believe i dischi sono distribuiti in Italia e all'estero nei migliori negozi di musica, nelle principali catene (Feltrinelli, Fnac, Ricordi, Mondadori, Melbookstore) e su 60 piattaforme di download/streaming digitale in circa 80 paesi in tutto il mondo (iTunes, Spotify, Deezer, AppleMusic, Amazon, Qobuz, Tidal).